Nel 2040 più della metà della popolazione mondiale vivrà in aree a rischio idrico elevato. Non è uno scenario da film distopico: lo dice l’ONU, lo confermano i dati dell’OCSE, lo viviamo ogni estate anche in diverse regioni italiane. Cosa significa davvero “stress idrico”? E perché riguarda anche chi vive in territori dove, apparentemente, l’acqua non manca?
Lo stress idrico non è solo siccità o desertificazione. È un indice complesso che misura la distanza tra il fabbisogno d’acqua e la sua effettiva disponibilità, tenendo conto anche della qualità e della pressione sugli ecosistemi. È un sintomo di disequilibrio, e come ogni sintomo, se ignorato, diventa cronico.
A maggio 2025 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che sollecita la Commissione a presentare entro l’estate una Strategia europea per la resilienza idrica. Questa iniziativa mira a contrastare lo stress idrico crescente, che attualmente colpisce circa il 20% del territorio dell’UE e il 30% della popolazione ogni anno.
La risoluzione sottolinea l’importanza dell’acqua non solo per la salute pubblica, ma anche per l’economia, la competitività e l’adattamento ai cambiamenti climatici. I deputati chiedono obiettivi vincolanti per migliorare l’efficienza nell’uso dell’acqua e limitare l’estrazione da fonti naturali, basandosi su valutazioni del rischio climatico. Inoltre, si sollecita un’azione più incisiva per contrastare l’inquinamento idrico causato da pesticidi, microplastiche, sostanze chimiche e PFAS, le cosiddette “sostanze chimiche eterne”.
La strategia dovrebbe integrare la gestione delle risorse idriche nei piani di adattamento climatico, con particolare attenzione alle regioni vulnerabili come il Mediterraneo, le isole e le regioni ultra periferiche. È necessario rafforzare i sistemi di allerta e risposta alle crisi idriche, incluse siccità e inondazioni. I deputati invitano la Commissione a destinare finanziamenti mirati per modernizzare le infrastrutture e promuovere l’innovazione tecnologica, come l’uso dell’intelligenza artificiale per rilevare perdite, sistemi di irrigazione intelligenti e la raccolta digitale dei dati per migliorare il monitoraggio e la sicurezza delle reti idriche.
In Italia, dove la crisi climatica ha reso le piogge più irregolari e concentrate, la disponibilità di acqua si sta contraendo. Lo testimonia il fatto che nel 2023 oltre il 40% dell’acqua potabile si è dispersa nelle reti prima di arrivare nelle case (fonte: ISTAT). Lo confermano i conflitti per l’uso dell’acqua tra agricoltura, energia e consumo civile. E lo dimostrano le limitazioni imposte da decine di Comuni già in primavera.
Anche la Lombardia, terra di fiumi, laghi e falde profonde, ha vissuto il biennio 2021-2022 come il più secco degli ultimi 70 anni. Tuttavia, il rischio idrico qui è più silenzioso e subdolo: non si manifesta come emergenza, ma come pressione costante su un sistema infrastrutturale e ambientale che ha bisogno di manutenzione, innovazione, visione condivisa
È in questo contesto che si muove Gruppo CAP, gestore del servizio idrico integrato nella Città metropolitana di Milano e in altri comuni lombardi. Nella sua Rendicontazione di Sostenibilità 2024, il gruppo riconosce la necessità di agire prima che lo stress idrico diventi crisi. E lo fa con una strategia articolata, che mette insieme dati, tecnologia e partecipazione.
Nel quadro della gestione degli impatti, dei rischi e delle opportunità legati alle risorse idriche, Gruppo CAP ha adottato una serie strutturata di azioni, sia nell’anno di riferimento sia in prospettiva futura, finalizzate alla tutela della risorsa idrica, all’efficientamento dei sistemi acquedottistici e alla continuità e qualità del servizio erogato.
Va precisato che ad oggi Gruppo CAP non ha i siti che ricadono in zone sottoposte allo stress idrico, secondo la definizione fornita dagli ESRS per cui una zona a elevato stress idrico è una regione in cui la percentuale totale di acqua prelevata è alta (40-80 %) o estremamente alta (superiore all’80 %) secondo lo strumento Aqueduct Water Risk Atlas (atlante del rischio idrico) del World Resources Institute (WRI).
Ma il rischio di stress idrico in Lombardia è reale? Lo è, ed è un tema che ci riguarda sempre più da vicino. I dati ci dicono che entro il 2080 potremmo arrivare a utilizzare oltre l’80% delle risorse disponibili. Alcune aree, come il Parco dell’Adamello, sono già oggi molto esposte. Per questo Gruppo CAP sta lavorando su più fronti: efficienza delle reti, tecnologie digitali e cultura dell’acqua.
Per mitigare i rischi relativi alla progressiva scarsità di risorse idriche connessa al cambiamento climatico, Gruppo CAP partecipa attivamente alla commissione Acque Potabili di Utilitalia e ha avviato il progetto Award, un progetto triennale iniziato a gennaio 2024 e finanziato dalla Commissione Europea – Programma Horizon Europe, con l’obiettivo di sviluppare e integrare risorse idriche alternative, affidabili e accettabili, nell’ambito della pianificazione dell’approvvigionamento idrico. Per limitare, invece, il fenomeno delle perdite, Gruppo CAP è in dialogo costante con tutti gli Enti esterni coinvolti nell’attuazione dei progetti di riduzione delle perdite per garantirne l’efficace attuazione.
Gruppo CAP gestisce oltre 6.500 km di rete acquedottistica e nel 2024 ha immesso in rete circa 235 milioni di metri cubi di acqua potabile. Il consumo medio per abitante è stato di 195,4 litri al giorno. Particolarmente significativo è il dato sulle perdite idriche lineari, scese a 16,19 metri cubi per chilometro al giorno, in netto miglioramento rispetto al 2020 (18,95). L’obiettivo dichiarato è ambizioso: scendere a 12 mc/km/giorno entro il 2033.
Per affrontare la sfida dell’efficienza idrica, CAP prosegue nel programma di investimenti e innovazione tecnologica, con particolare attenzione al monitoraggio delle reti, alla riduzione delle perdite e all’ottimizzazione delle pressioni. Questi interventi rientrano nei piani pluriennali già avviati e beneficiano anche del supporto dei fondi PNRR, in linea con gli obiettivi nazionali ed europei.
Uno degli strumenti più avanzati è la distrettualizzazione della rete: creazione di distretti caratterizzati da pressione omogenea, controllati da remoto con sensori e software per la modellazione idraulica.
La digitalizzazione riveste un ruolo chiave nella gestione delle reti idriche. Ė stato attivato un importante piano di investimenti da qui al 2033 per ridurre le perdite. Grazie a sensori, radar e sistemi di smart metering, Gruppo CAP può controllare in modo puntuale cosa accade nella rete, prevenire le rotture e intervenire con più rapidità.
Ma la risposta allo stress idrico non può fermarsi alla tecnologia. Altrettanto necessario è l’impegno nel riuso dell’acqua: nell’impianto di Bresso-Niguarda si riutilizzano le acque depurate al servizio del parco Nord. A ciò si affiancano iniziative di sensibilizzazione, come la guida al consumo consapevole “Ogni goccia conta” e la collaborazione con Altroconsumo per promuovere la fiducia nell’acqua di rete: perché i comportamenti quotidiani di tutti noi hanno un ruolo fondamentale nella sfida posta dalla crisi climatica.
La sostenibilità idrica si costruisce anche con l’informazione e la trasparenza: in tutto il territorio Gruppo CAP ha adottato i Piani di Sicurezza dell’Acqua (PSA), strumenti previsti dall’OMS per prevenire rischi microbiologici e chimici alla fonte.
È il principio della doppia materialità a guidare queste scelte. Da una parte, l’impatto che CAP ha sull’ambiente idrico (emissioni, perdite, recuperi). Dall’altra, quello che la crisi climatica e le sue conseguenze – siccità, carenza, contaminazioni – possono avere sul servizio idrico stesso. È una relazione circolare, che obbliga a pensare in modo integrato.
Le criticità più rilevanti in ambito ambientale sono legate alla scarsità di risorsa, alla variabilità climatica, all’incremento della temperatura e alla maggiore frequenza di eventi estremi, che impattano sulla quantità e qualità dell’acqua disponibile.
Il messaggio finale è chiaro: anche dove l’acqua c’è, non è scontato che ci sia sempre. Per garantirla, serve un approccio cooperativo. Serve fiducia tra gestori, cittadini, istituzioni e ricerca. L’acqua è una risorsa condivisa, e richiede responsabilità condivise. Anche senza emergenza, anche in pianura. Ma forse il vero salto di qualità da compiere per mettere in sicurezza questo nostro “oro blu” è andare oltre alla visione dell’acqua come risorsa utilitaristica da consumare, conservare, condividere e recuperare ma, come ci sollecita da tempo il prof. Jeremy Rifkin, guardare all’acqua come fonte di vita e di creazione per tutto. Utopia o estrema ratio? Alle generazioni Alpha e Beta l’ardua sentenza!
Esperto di cambiamento climatico, pianificazione, resilienza e innovazione urbana, Piero Pelizzaro è responsabile all’Agenzia del Demanio dell’Unità organizzativa Officina per la rigenerazione dell’immobile pubblico del Comune di Vicenza, coordina la stesura della Strategia di sostenibilità ed impatti ESG ed è responsabile del presidio Innovazione e sostenibilità per la direzione trasformazione Digitale.
In precedenza, ha rivestito il ruolo di dirigente amministrativo e chief resilience officer per il Comune di Milano presso la direzione Transizione ecologica, assumendo la direzione del Dipartimento città resilienti. È stato direttore Relazioni internazionali e gestione fondi UE e PNRR per il Comune di Bologna, dove coordinava la strategia territoriale dei fondi comunitari e regionali. Ha lavorato come ricercatore presso lo IUAV – Planning climate change ed ha collaborato con molte università italiane ed europee.
Pelizzaro è stato consulente per il Ministero dell’Ambiente e per l’Unione Europea.
È stato fondatore di Climalia, società di consulenza specializzata nella fornitura di servizi climatici in Italia ed ha lavorato per Kyoto Club ed AzzeroCO2.
Esperto di fondi europei e relazioni internazionali, grazie alle esperienze maturate nelle istituzioni europee e allo Stockholm environment institute di Tallinn, Pelizzaro ha una consolidata competenza nell’ambito dei progetti europei e in materia di resilienza urbana, contabilità economica ambientale, scenari energetici e modelli di impatto dei cambiamenti climatici.
Cosa significa oggi parlare di città resilienti?
Una città resiliente è una città in grado di assorbire i cambiamenti e gli shock ambientali – pensiamo ad esempio agli eventi meteorologici estremi o al consumo del suolo – senza compromettere la propria capacità di funzionare e di garantire benessere a chi la abita. Ma resilienza significa anche avere una comunità capace di adattarsi, di riorganizzarsi, di continuare a vivere le proprie attività quotidiane, economiche e sociali, anche in contesti critici.
Da anni lei si occupa di adattamento climatico e stress idrico. A che punto siamo in Italia?
Negli ultimi anni abbiamo fatto passi avanti nella consapevolezza, ma siamo ancora molto indietro sul piano delle azioni strutturali. C’è una tendenza generalizzata a reagire solo quando la crisi è già evidente. Lo vediamo con la siccità: si agisce con ordinanze e misure straordinarie, ma raramente si affrontano le cause alla radice. Il tema centrale è che dobbiamo iniziare a gestire la risorsa idrica come un bene finito, anche nei territori dove ce n’è apparentemente in abbondanza.
Cosa vuol dir davvero costruire una città resiliente?
Una città resiliente non è semplicemente una città smart, piena di sensori e tecnologie. È una città che ha la capacità di adattarsi alle trasformazioni, anche quando sono lente e invisibili. L’adattamento climatico è spesso fatto di azioni che non si vedono subito, ma che danno frutti nel medio-lungo periodo. Parliamo di pianificazione, prevenzione, riduzione della vulnerabilità. Serve una cultura del tempo lungo, che oggi in Italia fatichiamo ad affermare.
Qual è la differenza tra una città resiliente e una smart city?
I due modelli sono complementari. La smart city punta sull’efficienza, sull’ottimizzazione dei servizi attraverso la digitalizzazione e la raccolta dati. È un modello basato sulla prestazione. La città resiliente lavora sull’incertezza: accetta che gli eventi non sempre siano prevedibili o controllabili e si prepara ad affrontarli con una visione sistemica, integrando natura, tecnologia, cultura e comunità. In sintesi: la smart city risponde al “come funzionare meglio”, la città resiliente si chiede “come continuare a funzionare anche quando le cose vanno male”.
Quali sono oggi gli shock più rilevanti a livello urbano?
Terremoti, inondazioni come flash flood, eventi estremi e imprevedibili. Le ondate di calore invece, che fino a qualche anno fa erano considerate eventi eccezionali, oggi sono diventate quasi la norma. E non parliamo solo dell’estate: anche in inverno registriamo temperature di 10 o 15 gradi sopra la media, con impatti notevoli sulla biodiversità e sugli equilibri degli ecosistemi. Un Natale a 17 gradi nel Nord Italia non è più un’anomalia. A queste condizioni ci stiamo abituando, ma non possiamo ignorarne le conseguenze.
Lo stress idrico è una diretta conseguenza di questi mutamenti?
Lo stress idrico non è solo una questione di scarsità dovuta alla siccità. È il risultato di un equilibrio che salta tra domanda e disponibilità della risorsa. La pressione può aumentare per tanti motivi: un uso agricolo intensivo, un aumento del consumo urbano, una gestione inefficiente o una rete colabrodo, come purtroppo accade in molte città italiane. E poi ci sono gli impatti indiretti: con temperature più alte, cresce l’evaporazione e diminuisce l’effettiva disponibilità.
Come dovrebbero rispondere le città? Da dove si parte per rafforzare la resilienza?
Si parte dalla conoscenza. Senza dati, non si fa pianificazione. Conoscere i flussi, i consumi, la permeabilità del suolo, il funzionamento delle reti è il primo passo. Ma poi serve un cambio di paradigma: le sole infrastrutture grigie – come i grandi serbatoi o le opere di canalizzazione – non bastano più. Dobbiamo investire in soluzioni basate sulla natura, che favoriscano l’infiltrazione, la ritenzione, il riuso. Serve anche una governance chiara, che coinvolga enti locali, gestori, comunità, in modo coordinato.
Ha citato la pianificazione. Che ruolo hanno i Comuni in tutto questo?
Un ruolo fondamentale, perché sono i primi ad affrontare le conseguenze delle crisi idriche, e i più vicini alle persone. Ma spesso non hanno strumenti, risorse o competenze sufficienti. Per questo servono governance multilivello e strumenti finanziari adeguati. È importante che la politica nazionale riconosca il valore della pianificazione locale e che favorisca il partenariato pubblico-privato come strumento di attuazione.
Quindi quali sono le leve economiche e finanziarie per affrontare questa transizione?
Serve un mix di strumenti: risorse pubbliche, finanziamenti europei, modelli di investimento che premino l’efficienza idrica e ambientale. La Water Resilience Strategy che la Commissione Europea ha annunciato per il 2025 è un passo importante. Mette al centro la lotta alle perdite, l’uso di tecnologie digitali, ma riconosce anche l’urgenza di soluzioni nature-based. Il tema è garantire finanziamenti stabili, di lungo periodo, che permettano alle città di fare interventi strutturali, non solo risposte emergenziali. Mi auguro che sia anche l’inizio di un cambio di paradigma. Finora si è parlato molto di perdite idriche e di efficienza della rete, che sono senz’altro temi centrali, ma bisogna guardare anche agli usi produttivi. Oggi il settore agricolo, quello industriale – pensiamo al fashion – e persino il raffreddamento dei data center hanno impatti enormi sul consumo d’acqua. Se vogliamo davvero costruire una resilienza sistemica, dobbiamo affrontare anche queste questioni.
Ci sono esempi virtuosi a cui guardare?
Sì, penso per esempio al Veneto, dove è stato nominato un commissario straordinario per affrontare la crisi idrica con poteri speciali. È un caso interessante perché unisce una governance forte a una visione sistemica. Inoltre, alcune città stanno integrando l’adattamento climatico nei loro strumenti urbanistici. Penso a Milano, Bologna, Roma, dove si lavora su piani di resilienza urbana e gestione delle acque. Ma manca ancora una visione sistemica e, soprattutto, i fondi per attuarla. Spesso si fanno progettazioni anche molto buone che però restano in un cassetto perché mancano le risorse per realizzarle o per mantenerle nel tempo.
In che modo possiamo cambiare prospettiva?
Servirebbe un cambio culturale. Pensare all’acqua non solo come risorsa da gestire, ma come elemento che plasma il territorio. Dobbiamo riportare l’acqua nel paesaggio, rivedere il rapporto tra città e natura, integrare il verde nella progettazione urbana. È anche una questione di democrazia ambientale: rendere le città più vivibili, sicure e sane per tutte e tutti, a partire dai quartieri più vulnerabili.
In tutto questo, qual è il ruolo di chi, come lei, si definisce un city maker?
Un city maker non è solo un tecnico o un progettista. È qualcuno che si mette in ascolto dei bisogni reali delle persone e prova a costruire risposte concrete, spesso anche in condizioni difficili. Essere city maker vuol dire portare dento alla pubblica amministrazione competenze e modelli di sviluppo innovativi, soprattutto a favore di chi è più esposto alle disuguaglianze ambientali. Significa riportare il pubblico ad essere un soggetto che diventa proprietario dell’innovazione e non che subisce l’innovazione da parte solo del privato. Significa tenere insieme il qui e ora con il domani: fare i conti con l’emergenza, ma senza perdere lo sguardo lungo.